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26 Giugno 2015

Dell’Iper-Grazia del reale

Di Redazione

RITRATTI DI GRAZIA BARBIERI

guantiLorenza Miretti – Non soggetti urbani, automobili e insegne luminose dei fast food, non vetrine di negozi e palazzi dai riflessi nitidi o dalle trasparenze vitree scrupolosamente riprodotti, non oggetti commerciali di un ménage quotidiano dell’America anni Sessanta (si pensi a Richard Estes o John Baeder), ma nemmeno i grandi volti di Chuck Close che guardano lo spettatore con gli occhi sgranati né le caramelle o gli elettrodomestici dell’italiano Antony Brunelli, bensì ritratti e figure a mezzo busto di medie dimensioni le opere esposte da Grazia Barbieri che della corrente dell’iperrealismo fanno propria la volontà di riprodurre la realtà con tale precisione da contendere alla fotografia il primato dell’arte più fedele al vero (e meritare anche il nome di fotorealismo, termine coniato nel 1969 dal gallerista americano Louis Meisel). Come l’iperrealismo, Grazia sperimenta l’esasperazione del virtuosismo e il perfezionismo quasi maniacale della riproduzione del dato reale, rifuggendo il gesto istantaneo ed emozionale a favore di un percorso pittorico lento e meditato, pennellata dopo pennellata, con la pazienza di un’arte antica.

Tuttavia mentre l’uno soleva spesso partire da un’immagine fotografica poi trasferita sulla tela in tutto il suo nitore, Grazia inizia da uno schizzo tracciato a mano libera che in seguito riporta allo stesso modo su una tavola lignea e in quello spazio dettaglia, affina e perfeziona. Più che figure reali tratte dalla quotidianità, l’artista sembra ritrarre le fattezze di immagini del tutto interiori come fossero flash che si accendono nell’oscurità della mente e che la pittrice coglie nell’attimo fuggente del loro apparire.

Non è un caso che questi ritratti si staglino su fondali anonimi – indistintamente monocromatici (si veda Desigual) anche quando apparentemente realistici (Sottosopra e Carlotta), immaginari nel loro sontuoso decorativismo (La ragazza con l’orecchino di perla), sempre privi di ogni profondità e prospettiva –; meri supporti bidimensionali atti ad isolare le figure sospendendole in una dimensione irreale che, per contrasto, amplifica e radicalizza l’accuratezza realistica delle figure; sfondi inerti che fanno da contrappunto alla precisione dei particolari cui è affidata la risoluzione iperrealista della rappresentazione non solo del volto, e del corpo, ma anche, prepotentemente, dell’abbigliamento. Come nella tradizione ritrattistica antica, abiti e accessori – ricchi e variopinti come in Desegual o Il foulard, oppure semplici come un paio di guanti rossi (Guanti), un turbante giallo (La ragazza col turbante giallo) o un foulard blu (Blu) – svolgono una precisa funzione comunicativa tanto da divenire spesso parte integrante dei titoli dei quadri: al pari di velluti ed ermellini, gioielli e simboli del potere dei ritratti di pontefici e imperatori, tali oggetti sottolineano la distanza di queste figure per lo più femminili dalla realtà e assumono un particolare valore simbolico ed evocativo.

Se i ritratti dipinti dagli iperrealisti negli anni ’60 e ’70, raggelati in gesti quasi banali, infondevano nello spettatore una profonda inquietudine, le immagini di Grazia Barbieri emanano invece un senso al contempo di sorpresa e di solitudine come immortalassero esseri improvvisamente strappati da un rassicurante isolamento e spinti, disarmati e inermi, a fronteggiare un mondo sconosciuto. Eppure, a ben guardare, in loro non vi è alcuna traccia di sofferenza poiché la cura di ogni singola pennellata, nella sua precisione mai asettica, tramette la Grazia di un iperrealismo carico di profonda e calda armonia.

 

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