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11 Maggio 2014

Indovina che viene a cena?

Di Redazione

Un insolito appuntamento al Museo della Caccia e della Natura di Parigi

parigi notre copiaDi Paulette Bonette – Mi affaccio sul cielo di Parigi che sa di primavera, nonostante gli spruzzi di giallo qua e là sui Jardin des Tuileries. Distesa sul letto della mia stanza, di fronte alla finestra aperta, mi sento una regina che domina il suo regno. All’orizzonte, come un punto esclamativo alla grandeur, s’impenna fiera la Tour Eiffel, scintillante di azzurro come il cielo. Intravedo appena, invece, l’obelisco egizio della Place de la Concorde e immagino il fiume d’auto che scorre irrequieto lungo gli Champs-Elysées fino alla Place de l’Étoile con il suo trionfale Arco. Qui, dove io troneggio, arriva invece solo il silenzio dei Giardini, un tappeto di alberi e fiori che si srotola con i suoi profumi di verde, le belle statue bianche che corteggiano i sentieri di ghiaia e le fontane circolari, romantiche oasi dove raccogliersi a riposare, a leggere, a chiacchierare o semplicemente a pensare. Mi tornano in mente tutte le volte in cui mi son seduta laggiù, su quelle seggiole di ferro verdi sempre uguali, inumidite dagli spruzzi dei getti d’acqua delle fontane o scaldate dai raggi del sole. Quanti artisti avranno trovato ispirazione là, per una poesia o per un ritratto, e quanti innamorati si saranno dichiarati amore eterno con un bacio e un sussurrato je t’aime all’orecchio. Ogni volta che torno qui è come fosse sempre la stessa volta, un inspiegabile magico dejà-vu. Questo è uno dei segreti di Parigi: mi dà la sensazione che il tempo si fermi. Mi regala l’illusione di essere  racchiusa in uno scrigno senza età che diventa il centro dell’Universo e io, per un attimo infinito, sono il cuore palpitante di questo immenso scrigno. A malincuore sguscio fuori dal bozzolo dei miei pensieri e scaccio l’idea che domani a quest’ora sarò di nuovo a casa, rassegnata alla mia città, che mi peserà addosso come un vecchio indumento grigio e stretto. Prima di prepararmi per la serata, gusto ancora un istante il panorama, per conservarlo nella mente come un souvenir irripetibile di emozioni. L’azzurro del cielo cede gradatamente sotto pennellate sempre più tenui e l’orizzonte si riempie di un tramonto violaceo che va a baciare le luci della città già vestita da sera.  E’ tardi. Mi attende una cena al Musée de la Chasse et de la Nature, il Museo della Caccia e della Natura. Non ci sono mai stata e nonostante la mia avversione per la caccia ho il presentimento che Parigi riuscirà a sedurmi anche questa sera. Sul taxi che serpeggia nel traffico seguo con lo sguardo le stradine che imbocchiamo appena fuori dal centro, affollate di giovani e di bistrot animati di musica e colori. Arrivata a destinazione mi aspettano i miei ospiti e non solo: all’ingresso dell’edificio cinque trombettieri inaugurano la serata in pompa magna dando fiato agli strumenti e inondano l’antico cortile di un’atmosfera solenne che lo trasforma per un attimo nella Corte del re Sole. Non me l’aspettavo e mi imbarazza un po’ quest’accoglienza così cerimoniosa.

Mi unisco al gruppo, piacevolmente stupito e onorato quanto me. Siamo in tutto una quarantina di persone e tra francesi, italiani, belgi, tedeschi, turchi e spagnoli si dipana un divertente concerto di idiomi che fa da contraltare a quello delle trombe. Prima di sederci a tavola una guida ci accompagna a visitare il museo, attraverso un labirinto di stanze sontuose, ognuna con un proprio nome: tutte marmi, tappeti, quadri, arazzi e tendaggi di velluto scarlatto che ricordano il sipario di un misterioso teatro. Ogni stanza è un palcoscenico in miniatura e penso che ognuna di esse potrebbe essere un piccolo museo in sé. Ci viene spiegato che il Musée de la Chasse è stato costruito nel 1964 per volontà di François Sommer e di sua moglie Jacqueline, appassionati amanti della caccia e facoltosi collezionisti di armi e di libri sulla la storia della caccia in Francia. Per raggiungere la prima Sala devo affrontare una scala dai gradini di marmo talmente consumati che mi fanno seriamente preoccupare, considerando le scarpe con il tacco che ho dovuto indossare, mio malgrado, per l’occasione. Senza incidenti, per fortuna, sbocco nella Sala dei Trofei. Un tripudio di animali imbalsamati: teste appese tutt’attorno alle pareti e corpi intatti esibiti dentro preziose vetrine di cristallo, come fossero esemplari ancora vivi, appena strappati alla libertà. Insomma, un cimitero di cervi, orsi, rinoceronti, leopardi, bisonti portati via dall’Africa e dalle Indie, per arrivare qui, nel centro di Parigi. Un cimitero di creature bellissime che mi osservano con i loro grotteschi occhi vitrei.

Evidentemente nessuno degli ospiti deve avere a che fare con il WWF o con i Verdi, perché colgo attorno a me solo esclamazioni di meraviglia e di sincero apprezzamento di fronte a quello che, per Monsieur e Madame Sommer, doveva testimoniare la vittoria dell’uomo sulla natura. Mi costringo a tener per me le mie riflessioni, soffocando la pena che sento nel vedere tutte quelle creature sacrificate alla vanità umana e proseguo obbediente la visita, tra dipinti sempre più cruenti. Scene di caccia, prede squarciate, brandelli ci carne, animali sgozzati, spesso addolcite da una candida dea Diana in primo piano che, adagiata come un fiore in mezzo al massacro, sorride tenera ai suoi cani, dispensando loro amorevoli carezze. Tiro un sospiro di sollievo solo quando entro nella Sala dei Cani e, più avanti, nella Sala dei Cavalli, come se cambiasse improvvisamente scena in un film dell’orrore. Dipinti grandi anche tutta una parete immortalano quelli che erano considerati dai signori francesi i veri eroi della caccia, i cani e i cavalli, appunto, di cui i nobili andavano talmente fieri da ordinarne la raffigurazione da parte dei pittori più stimati. Il senso di leggerezza che provo qui mi lascia per un istante libera di immaginare come proseguirà la serata e, pregustando la cena che mi aspetta, tutt’a un tratto mi assale un dubbio. Sono a digiuno dal mattino e i gorgoglii della mia pancia sono a stento coperti dal vociare nella sala ma – penso- sopravvivrò qui io, indefessa vegetariana? Un lieve sconforto mi prende, vedendo improvvisamente nella mia mente andare in fumo ostriche e coquillage che tanto avrei desiderato. Di certo nel regno di Diana sarebbe un sacrilegio offrire ai commensali pesce e crostacei, quindi meglio che mi rassegni. Speriamo almeno in qualche buon formaggio! Con questo languore nello stomaco mi perdo le ultime parole della guida, che conclude invitandoci a scendere per un’altra scalinata, ancor più minacciosa della prima, data la ripida discesa. Incolume anche questa volta, raggiungo il piano terra e approdo davanti a quello che sembra incarnare definitivamente il simbolo del mia sospettosa inquietudine. Un enorme orso bruno, imbalsamato ovviamente, sembra salutarci e augurarci bon appetit, all’ingresso della sala da pranzo. Ad occhio sarà alto più di due metri eppure nemmeno le sue fauci spalancate e il suo atteggiamento feroce riesce a farmelo immaginare cattivo.

Mi consolo con un primo flute di champagne, sotto lo sguardo innocuo dell’orso, quando il nostro ospite francese annuncia con orgoglio che la cena sarà una sfilata di agnello, una vera prelibatezza, cucinato in infinite versioni, accompagnate da un’altrettanta infinita varietà di salse. Lo sapevo! Ma al secondo flute la mia timidezza svanisce e senza imbarazzo confesso il mio “difetto”: ebbene sì, sono vegetariana. Pas de problème, madame! E infatti, a tavola, tra i complimenti degli altri commensali per lo squisito agnello in salsa, io mi gusto un bellissimo piatto di verdure, talmente bello che sembra un giardino fiorito, gentilmente fatto sbocciare apposta per me. Un parfait al cioccolato con crema di vaniglia corona la cena, annaffiata da un vino rosso che ricorda un sottobosco fruttato, mettendo finalmente d’accordo i gusti di tutti. Finisce così una sera davvero insolita a Parigi che, come sempre, è riuscita a sorprendermi svelando una parte di sé che non conoscevo. Saluto tutti e ringrazio, lusingata dalla regale accoglienza. Guardo il manto di stelle sopra di me che sembra invitarmi ad una passeggiata notturna lungo gli Champs-Elysées, charmant più che mai a quest’ora. Ma prima di lasciare il museo non posso fare a meno di salutare il grosso orso bruno, che sembra inalberarsi ancor di più e resuscitare al tocco delle mie carezze, trasformando il suo feroce ruggito in una gaudente risata. Oh mon Dieu, lo so, sembrerò ridicola. Spero solo che gli altri ospiti non ci facciano caso o abbiano bevuto un po’ più champagne di me!

 

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